Vivere a Palermo tra passato e presente: i/le giovani e l’eredità della mafia
- Ezekiel Bleoue
- 23 giu
- Tempo di lettura: 4 min

di Ezekiel Bleoue - Youth Advisory Board
Palermo è una città che non lascia mai indifferenti. È un luogo che ti esplode dentro, che ti sfianca e ti illumina allo stesso tempo. È contraddittoria, come la sua storia, come le sue strade, come il modo in cui i/le ragazzi/le crescono qui, tra bellezza e disillusione, tra resilienza e rassegnazione. Parlare di mafia a Palermo non è solo un discorso storico o giudiziario: è un discorso quotidiano, culturale, identitario. E per noi giovani, è anche una lotta per non ereditarne il silenzio.
La mafia di ieri: dominio, paura, omertà
C’è stata una Palermo in cui la mafia governava tutto. Le decisioni non si prendevano in Comune, ma nei salotti o nei garage dei boss. I commercianti pagavano il pizzo come fosse una tassa legale. Chi denunciava, moriva. E i/le giovani? I/le giovani venivano educati/e a guardare dall’altra parte, ad accettare la presenza della “famiglia” come un male necessario o, peggio, come un’opportunità.
Negli anni Ottanta e Novanta, Palermo ha vissuto il buio. Gli omicidi eccellenti di Falcone, Borsellino e dei loro agenti di scorta hanno lasciato cicatrici ancora aperte. Ma proprio da lì è nato anche un cambiamento culturale, una rivoluzione silenziosa fatta di associazioni, scuole, insegnanti, movimenti civici, reti di giovani che hanno detto: “No, non ci stiamo.”
La mafia oggi: più silenziosa, più sottile
Oggi la mafia non spara quasi più. Non fa saltare autostrade, non organizza stragi. Ma esiste. Ha cambiato pelle. Ha imparato a vestirsi in giacca e cravatta, ad agire nel mondo dell’economia, dell’edilizia, della burocrazia. È meno visibile, ma forse proprio per questo ancora più pericolosa. È un sistema che non ha più bisogno di convincere con la paura basta l’assenza di alternative.
E qui entriamo in gioco noi.
I/le ragazzi/e a Palermo: tra il margine e la voglia di cambiare
Viviamo in una città in cui, spesso, o hai la fortuna di nascere nel “contesto giusto”, oppure ti ritrovi schiacciato dalla precarietà, dalle periferie abbandonate, dalla scuola che non riesce a recuperare nessuno/a. C’è chi sogna di andarsene, perché Palermo sembra non offrire futuro. Ma c’è anche chi resta, non per rassegnazione, ma per scelta politica, per amore, per identità.
Molti/e ragazzi/e, come me, non vogliono essere quelli/e che “scappano dal Sud”, ma quelli/e che lo cambiano. Ma cambiare significa prima di tutto dire le cose come stanno: la mafia c’è ancora, anche se non la vedi. C’è nei voti comprati, nei favori chiesti, nelle imprese pulite solo sulla carta. E allora dobbiamo alzare la voce, dobbiamo tornare a educare al dissenso, al pensiero critico, alla legalità non come parola vuota, ma come stile di vita quotidiano.
La raccomandazione mafiosa: la trappola invisibile
Uno dei motivi più dolorosi per cui tanti/e ragazzi/e decidono di lasciare Palermo è il sistema delle raccomandazioni. È quella forma di potere silenzioso che ti esclude prima ancora che tu possa giocare le tue carte. Ti sfianca, ti umilia. Ti fa sentire che non importa quanto studi, quanto vali, quanto ti impegni. Se non conosci le persone giuste, non andrai da nessuna parte.
È questo il volto più subdolo della mafia di oggi: non serve più la minaccia diretta, basta creare una rete di “favori”, parentele, agganci. La meritocrazia diventa un’illusione, un concetto da convegno. E noi giovani? Ci ritroviamo a fare i conti con un sistema che ci considera numeri, o peggio, "fastidi". Chi ha talento spesso prende un treno sola andata per Milano, Roma, Berlino. Non perché vuole andarsene, ma perché qui non c'è spazio per il talento.
E questa non è solo una perdita personale. È una perdita collettiva, perché Palermo si sta svuotando delle sue energie migliori. Rimangono i/le più rassegnati/e o chi ha accettato di piegarsi a certe logiche. Ma io credo che la nostra generazione non debba più essere costretta a scegliere tra dignità e casa.
Il nostro ruolo: essere ponte, essere coscienza
Noi giovani possiamo essere il punto di rottura, ma solo se ci riconosciamo come collettivo e non come individui isolati. La lotta alla mafia non è solo un affare da magistrati, è una questione educativa, sociale, politica. È nei quartieri, nelle scuole, nei centri di aggregazione. È nelle parole che scegliamo, nelle storie che raccontiamo, nei posti che decidiamo di abitare.
La mafia, oggi, non ha più bisogno solo della pistola, basta filtrare la vita pubblica con favoritismi e clientele per riprodurre gli stessi meccanismi d’ineguaglianza e ingiustizia. Per i/le giovani, questo diventa un bivio: restare e combattere, o andarsene per cercare dignità e meritocrazia altrove.
La sfida è duplice: cambiare le regole del gioco, denunciando la corruzione, sostenendo chi resiste, partecipando attivamente. Ma soprattutto, dobbiamo riprenderci il senso di una vita autentica, nella quale talento e sforzo valgano davvero.
Palermo non ha bisogno di eroi/eroine, ma di ragazzi/e consapevoli. Di una generazione che non erediti la paura, ma la memoria. Che non replichi i meccanismi del potere, ma li decostruisca. Che sia finalmente libera non solo dalla mafia, ma anche da tutto ciò che la rende ancora possibile.
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