Senza voce: storie distorte di bambini rifugiati
- Annachiara Banzoli
- 20 giu
- Tempo di lettura: 5 min

di Annachiara Banzoli
Avvertenza: la storia di Yasmine è frutto dell’immaginazione di chi scrive. Anche se Yasmine è solo un nome inventato, quella descritta nel suo diario immaginario potrebbe essere la storia di tanti bambini rifugiati. Ogni dato citato è reale e proviene dal report: Tra realtà e rappresentazione – Persone minorenni migranti e rifugiate nei media e il ruolo dell’informazione (2024).
World Refugee Day: la giornata dei “senza voce”
Oggi a scuola abbiamo fatto un cartellone. Giada ha disegnato una casa, io ho disegnato bambini e bambine che giocano insieme, Leonardo ha scritto in alto un grande titolo dettato dalla maestra: World Refugee Day.
La maestra ha preso un opuscolo e ha cominciato a leggere dati e numeri, a parlare di storie molto simili alla mia, di bambini e bambine proprio come me e i miei fratelli.
Sono bambini, e sono invisibili. Persino quando pensiamo di raccontarli. Ce lo dice questo rapporto, e ci interpella. Perché quando si parla di loro, anche quando se ne parla con superficialità e non di rado disprezzo, la loro voce è raccolta in meno del 14% dei casi. L’esatto contrario degli spazi concessi agli esponenti politici e di governo che poi sulla sorte di quegli invisibili dovranno decidere. Eppure, il fondamento di ogni scelta sulla vita degli altri dovrebbe essere proprio l’ascolto e il confronto.
La maestra l’ha letto e poi l’ha spiegato: i bambini e le bambine come me sono rifugiati, poco considerati, poco raccontati e soprattutto quasi mai ascoltati. Bambine e bambini con una storia che nessuno vuole ascoltare, bambine e bambini senza voce. E mentre in classe leggevamo quei dati nella mia testa si affollavano domande, domande che vorrei urlare, che vorrei fare a chi parla di noi ma non con noi.
Parlo tre lingue: perché nessuno mi ascolta?
A me sembra strano e un po’ assurdo, io la voce ce l’ho ed è forte e squillante. Parlo bene in italiano e a scuola sto imparando l’inglese, con la mia mamma parlo anche l’arabo.
Se volessero ascoltarmi potrei parlare ben tre lingue per farmi capire, ma nessuno mi ha mai chiesto di raccontare la mia storia.
Forse a nessuno interessa.
Eppure ho un nome, una famiglia, una vita. Ho amici e passioni.
Sono un numero sull’opuscolo della maestra ma sono anche Yasmine, ho 10 anni, mi piace il verde e la musica rock.
Mio fratello adolescente è un adulto?
A scuola ho imparato che esiste una convenzione per proteggere bambini e adolescenti. Si chiama Convenzione sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza. Ho cercato su internet e ho scoperto che mio fratello Youssef è un adolescente.
Youssef ha 16 anni, studia le lingue e ha una convenzione che spiega i suoi diritti ma spesso sento dire dai grandi che ragazzi come lui non dovrebbero stare qui, alcuni pensano sia addirittura pericoloso, che possa essere un problema.
È emersa in particolare una disparità di trattamento in base all’età dei giovani migranti, con adolescenti spesso assimilati a persone migranti adulte, promuovendo di fatto una visione monodimensionale e oscurando la necessità di una protezione specifica per questa fascia di età.
Nemmeno a lui è consentito parlare. Lo trattano come fosse un adulto, ma lo zittiscono come fosse un bambino incapace di capire.
Sono minore o sono bambina?
Oggi ho imparato una nuova parola: minori. Minori o Minorenni, mi sembra un termine per dire in breve bambini e adolescenti. Per descriverci tutti entro una fascia di età. Quando qualcuno mi chiama “minore", sento che manca qualcosa. È come se fossi solo un numero, un'etichetta. E qualcuno la pensa come me:
Negli anni, la comunità per la tutela dell’infanzia in Italia ha promosso l’uso di termini come “bambine/i” e “adolescenti” al posto di “minori”, percepito come riduttivo.
I miei amici e i miei fratelli mi chiamano Yasmine, per la scuola sono una bambina, per la mia mamma sono la sua bambina.
Per i politici sono una minore e questo mi fa sentire solo un’etichetta, un'etichetta che si può strappare, accartocciare e dimenticare in un angolo.
Solo emergenza o anche vita?
Quando dopo cena accendiamo la TV, una strana sensazione mi invade.
Io ricordo il nostro viaggio e lo vedo nelle immagini, lo sento nei suoni.
Ma ora la mia vita è anche altro: la mia vita è la scuola, la lezione di danza del mercoledì pomeriggio, l’estate trascorsa in giardino e i dipinti fatti con l’acquarello.
E la maestra lo ha letto parlando dei bambini e delle bambine rifugiati/e, dei bambini e delle bambine come me:
Una narrazione che li inserisce esclusivamente nel dibattito migratorio finisce per negare la loro specificità come bambini e adolescenti, associandoli implicitamente a responsabilità e capacità di scelta tipiche degli adulti. Ciò sfocia facilmente in atteggiamenti di rifiuto e nella diffusione di discorsi legati ai costi economici, sociali e culturali dell’accoglienza, fino a rappresentarli come una minaccia per le risorse locali e la sicurezza pubblica.
Ci descrivono come emergenza sin dal nostro arrivo, ma non siamo solo questo. A chi posso raccontarlo?
Lo sapete che so cantare e ballare?
Quando i media, i giornali e la televisione raccontano di noi sembra che siamo solo bambini scappati, che nella nostra vita non ci sia altro che quella fuga, questo rifugio.
A volte le persone ci vedono solo così. Eppure io so fare tantissime cose: so cantare e ballare, correre più forte di metà della mia classe, recitare a memoria la tabellina del nove e saltare la corda quasi all’infinito.
E forse è questa la chiave per farci parlare di noi:
Diversificare i temi trattati per bilanciare le narrazioni negative e garantire visibilità anche alle storie di integrazione quotidiana, mostrando esempi concreti di successo in ambiti come scuola, sport e cultura.
Ho una vita e un futuro. Vorrei sognarlo, vorrei raccontarlo.
A scuola “io sono”
Quando sono arrivata, la maestra mi ha aiutato a presentarmi al resto della classe, mi ha aiutato a spiegare che vengo da lontano e mi ha fatto parlare anche in arabo davanti a tutti.
Giada ha sorriso, Leonardo ha chiesto che gli insegnassi qualcosa, Cecilia ha fatto tante domande, Daniele si è seduto accanto a me.
Mi sento parte della scuola, e la scuola sì che mi chiede di parlare di me.
Io sono Yasmine e frequento la quinta elementare, ho tanti amici e racconto la mia storia a chi me la chiede.
Oggi la disegnerò sul nostro cartellone insieme alla casa e al sole, sotto la scritta: World Refugee Day.
Chissà perché il mondo ha bisogno di giornate dedicate per ricordarsi delle cose, forse perché fa poche domande e dimentica le storie dei suoi abitanti. Oggi è il World Refugee Day, ma per me e i miei fratelli, per tanti altri bambini e bambine è solo un giorno come un altro. Un altro giorno in cui desideriamo essere visti, ascoltati, accolti. Non bambini invisibili, non parole senza voce: persone che parlano, vivono e raccontano la propria storia.
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